Raccontare/raccontarsi non salva la vita. Ma prendere atto che le proprie parole insieme a quelle dei pari possono assumere forma di personaggi e diventare i luoghi, i tempi, le frasi di una storia è un modo per appropriarsi in maniera più matura e piena della lingua. Ed è anche una via per dare alla propria sofferenza canali di scorrimento e rimodulare i confini della propria esperienza nonché imparare a agire contro uno dei vincoli più pesanti che legano i ragazzi al proprio passato, ovvero il convincimento che anche il futuro sia già scritto.
«Sintassi del cambiamento perché se cambia la lingua, cambia l’essere, visto che non c’è dubbio alcuno che la lingua sia sempre stata il primo specchio di un popolo, di una persona. Non solo parlo come mangio ma anche parlo come sono. E se da principio riesco a mala pena a balbettare, magari pure in gergo dialettale, tramite un linguaggio riservato soltanto a me e ai miei, linguaggio di chiusura, dunque, che viene meno al suo compito principale che è quello di comunicare, un poco alla volta, grazie alla sintassi, riesco a formulare frasi che arrivano dappertutto, che si fanno intendere non più soltanto da me e dai miei.
Ed ecco allora la sintassi della liberazione che mette ali alla fantasia e dà voce ai sogni, che toglie le catene pesanti e arrugginite prima alla parola e poi anche alla scrittura. O forse a tutte e due contemporaneamente. Ma sintassi della liberazione anche nel senso che, grazie al linguaggio, non sono più prigioniero della mia rabbia, della mia frustrazione perché riesco ad esprimerle, a raccontarle, non più pietre dure dentro al cuore pesanti come marmo. E chissà che alla fine la sintassi non riesca a favorire la realizzazione concreta di quel complemento di moto a luogo che per primo è stato perfettamente chiaro ai ragazzi di Nisida».
Dalla Prefazione di Isabella Bossi Fedrigotti